Chi scrive non ha mai creduto che Squid Game fosse quella serie rivoluzionaria o epocale spacciata da molti dopo il grande successo della prima stagione. E non possedeva neppure tutta questa originalità, non solo in assoluto, ma anche all'interno del produzioni orientali (senza scomodare i vecchi Mai Dire Banzai o Takeshi's Castle che dir si voglia, la saga di Hunger Games, lo stesso Saw, basti pensare al recente Alice in Borderlands: serie giapponese uscita appena un anno prima e per certi versi ben più complessa). Tutte produzioni precedenti e per certi versi più originali.
Allora cosa ha decretato il successo del telefilm coreano, tanto da renderlo icona stessa di Netflix?
"A grande richiesta..." |
Entra qui allora in ballo la componente psicologica. Perchè se è vero che i personaggi della prima stagione e di questa seconda sono piuttosto stereotipati (più che altro per essere più facilmente identificabili, essendo tanti) offrono comunque lo spunto per immedesimarci in alcuni di loro, di empatizzare e quindi di entrare a fare parte in un certo senso della loro cerchia, del loro gruppo. Di tifare per loro.
Anche se il protagonista offre, più che in passato, una sorta di bussola morale e un faro con il quale separare nettamente gli ideali più nobili da quelli più cinici ed individualisti, egli stesso non esiterà, se messo alle strette, ad anteporre la sua "missione" (sgominare l'organizzazione dietro il gioco) al benessere collettivo. Ci vengono insomma continuamente poste le classiche domande "tu cosa faresti se fossi nei loro panni"? "In quale categoria ti immagineresti se partecipassi anche tu?". "Cosa sacrificheresti?". C'è insomma anche una forte componente di indagine sociale.
In fondo la serie stessa nasceva (prima di trasformarsi nel fenomeno globale che conosciamo) come un'analisi spietata sulla società nella quale viviamo e un'invettiva al classismo e al capitalismo che rende i ricchi e potenti in grado di decidere il destino di tutti gli altri, quasi come fosse un gioco. Perchè non renderlo effettivamente un gioco allora?
In questa stagione si cerca insomma di esaltare la componente più psicologica delle vicende, altrimenti legate a meccanismi troppo ripetitivi e reiterati (i giochi in se, come detto, non sono esattamente il massimo della complessità). In questo senso va evidenziato lo spazio infinitamente maggiore dato alle votazioni, che stabiliranno se i partecipanti sceglieranno di continuare o meno a giocare. Se prima infatti ritirarsi significava salvare la pellaccia senza però ottenere nient'altro, in questa seconda stagione se la maggioranza decide di ritirarsi allora tutti (oltre che restare vivi) otterranno proporzionalmente una parte del montepremi rimasto. In apparenza insomma la regola sembrerà meno stringente e più tesa alla collaborazione tra i giocanti, ma in pratica vedremo che alla prova dei fatti non sarà esattamente così. La natura umana è infatti molto complessa e non sempre la decisione più logica è necessariamente la scelta più ovvia. Il contesto, l'appartenenza ad un determinato gruppo, l'isolamento, l'autoconvincimento, la fede cieca in ideali che riteniamo (molte volte a torto) giusti costituiscono fattori che rimescolano totalmente le carte in tavola.
Il focus si sposta qui allora, più che sul gioco in se, sul senso stesso del giocare. Perchè giochiamo d'azzardo o scommettiamo? Le possibilità sono minime ed il gioco è strutturato per farci perdere nella quasi totalità dei casi. E allora perchè, con indole quasi masochistica, incuranti delle conseguenze, molti non riescono a smettere, anche quando hanno raggiunto l'obiettivo prefissato?
Cosa ci spinge a sacrificare il benessere collettivo e a mettere a rischio noi stessi pur di inseguire un obiettivo individualistico quasi irrealizzabile?
Meno riuscita e più prevedibile risulta invece la componente "poliziesca", inizialmente molto presente, ma che col passare delle puntate si fa evanescente e quasi del tutto inutile, nonostante il tentativo di inserire un colpo di scena che alla prova dei fatti risulta però molto telefonato. Lo stesso si può dire della sottotrama che ha per protagonista la ragazza nordcoreana che entra a far parte del gioco dall'altra parte della barricata. Un punto di vista interessante ma non sfruttato al meglio.
La seconda stagione di Squid Game è insomma per certi versi una sorta di "more of the same" dal quale cerca di smarcarsi in modi più o meno riusciti. Il finale di stagione è poi tanto avvincente quanto prevedibilmente "troncato" da un cliffhanger che la rende tipicamente una "stagione di mezzo": meno originale della prima e preparatoria per la terza. Nonostante questo riesce comunque ad intrattenere a a sopperire abbastanza bene alle sue mancanze.
PRO
- Una maggiore componente psicologica e di critica sociale, data anche da alcuni cambiamenti nelle regole
- Seppur semplici e poco originali, le prove risultano comunque appassionanti
- Il gioco nel gioco tra il protagonista e la "talpa"
CONTRO
- Sottotrama poliziesca evanescente, così come quella legata al "numero 11" che dopo inizi promettenti vengono lasciati un po' per strada.
- Ripetitività di dinamiche e situazioni
- Alcuni personaggi hanno poco spessore o sono semplici stereotipi.
Voto 7,5
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