Volevo buttar giù due righe per un film di un paio di anni fa, che merita una recensione, che voglia essere un consiglio di visione ma anche una guida per chi già l’ha visto. Un film che se da una parte ho fatto bene a tenere fuori dalla barbarie delle multisale moderne, col loro chiassoso carico di ignoranza, dall’altra avrebbe davvero meritato di essere gustato al cinema quando usci (nel 2011).
Ad ogni modo, vi dicevo di The Tree of Life, un opera dall’impatto visivo notevole e dal contenuto altamente spirituale, sul senso della vita. No, non è che ci sia bisogno di esser Ned Flanders per apprezzarlo. Un opera caratterizzata principalmente da una splendida fotografia e da un certosino montaggio, elementi questi che particolarizzano e valgono tutto il film. Come in un lungo videoclip esso ci fa lascia guardare all’interno di un microcosmo, la vita di una famiglia americana media, che non ha particolari tormenti fuorché quello di attraversare l’oceano dell’esistenza. E’ qui che sta la particolarità del messaggio. Scevra da particolari fronzoli la vita è comunque una traversata faticosa da affrontare, sin dall’’infanzia, che è poi la base su cui poggia la nostra vita.
La prima parte del film si sposta in avanti per parlarci di un lutto, la perdita di uno dei tre figli della coppia (Brad Pitt e Jessica Chastain) e descrive l’elaborazione del dolore di una madre, che mette in discussione il suo credo (spirituale e filosofico) di fronte a un simile dolore. E’ la parte di sicuro più visionaria, in cui alla più classica domanda: “cosa siamo noi in questo mondo”, il regista risponde con una spietata sequela di immagini spettacolari e psichedeliche dell’universo, in perfetto stile Odissea nello spazio (non a caso curata dallo stesso Douglas Trumbull, curatore degli effetti speciali nel capolavoro di Kubrick) che mette a nudo tutta la fragilità della navicella uomo, persa in un universo sconfinato, in cui non siamo neppure associabili ad un minuscolo puntino. Davvero una risposta spietata, non credete? E’ questo che il regista fa per tutto il film, fa domande a Dio in narrazione e da risposte per immagini.
Come nella seconda parte, quando passa ad affrontare l’infanzia del figlio maggiore della coppia (che sarà Sean Penn da grande) e il suo complesso di Edipo verso la madre amorevole, prima geloso della nascita del fratello e poi contrapposto alla severa educazione del padre. Nient’altro che le due facce di Dio, come si accenna all’inizio, rappresentate dalla Grazia e dalla Natura.
Il film va avanti dunque per immagini che non necessitano di particolari dialoghi o approfondimenti, perché sono lì. Evidenti. E tu le cogli senza che ci sia bisogno di altre spiegazioni. Immagini fatte di inquadrature tutte dalla prospettiva del protagonista, oniriche e mnemoniche (altro pezzo pregiato del film). Una pellicola dal passo New Age, dunque, che intacca le corde dell’animo come se si fosse sdraiati sul lettino di un psicanalista.
Di sicuro un occhio superficiale potrebbe trovarlo un po' pesante, ma si sbaglierebbe, perchè il film scorre abbastanza bene e il significato non è affatto ermetico. Non è un mattone da “fuori orario”, ne psicotico alla Linch, ne schizzato alla Cronenberg, ne troppo strappalacrime. E’ un film anzi a tratti “ingenuo” e forse eccessivamente “puro”, ma che tutto sommato si lascia vedere e apprezzare totalmente senza eccessivi sbadigli. Quell’anno agli oscar ebbe la sfortuna di trovarsi di fronte un certo Inception, uscendo a mani vuote, ma si consolò con la palma d’oro a Cannes.
voto 8
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