giovedì 11 febbraio 2016

HATEFUL EIGHT – Quentin Tarantino

Torna Tarantino e dopo "I Magnifici Sette", il cinema ha i suoi "Odiosi Otto"... anche se in realtà il suo si ispira di più a quei "Dieci piccoli indiani". Otto come il suo ottavo film ed otto come il numero dei suoi protagonisti. Tutti "brutti, lerci e cattivi". Ognuno di loro con una storia personale non proprio edificante alle spalle. Ognuno di loro costretto a guardarsi quelle stesse spalle dagli altri sette. Bloccati tutti insieme in una locanda sperduta nel Wyoming per colpa di una tempesta di neve. E noi sappiamo bene cosa significa rinchiudere in un luogo isolato, i personaggi di un film di Tarantino, con tali premesse.

Il buon vecchio Quentin ritorna così al western tre anni dopo Django, non con "un altro Django", come qualcuno tra i miei amici l'aveva erroneamente etichettato, ma con un nuovo western girato pur sempre alla "sua" maniera. Impresso su formato panoramico (70 mm) e impreziosito dalle musiche del "nostro" Ennio Morricone (nominato agli oscar per la colonna sonora) Hateful Eight è uno splatter-western (o pulp-western) come solo lui poteva girarlo. Con una fotografia e un sonoro che entrano imponenti già dalla prima inquadratura e che ti accompagnano fino all'ultima. Ragazzi il tocco c'è! QT non perde il suo smalto.

Noi da sempre più abituati a Western "caldi", girati sul confine tra Messico e USA, memori (ad esempio) di Tuco che si trascina Biondo in quell'arido deserto per torturarlo, ci siamo invece imbattuti, ultimanete, in due grandi Western "freddi" ed anomali. Prima The Revenant e poi Hateful Eight ci ricordano che l'America è un grande paese (inteso come estensione geografica) e che i deserti possono essere fatti anche di neve. Due western crudi ma splendidamente diversi, intendiamoci, tanto da non poterli neppure paragonare. Tanto "esterno" e poco parlato quello, quanto "interno" e ricco di dialoghi tarantiniani questo. E metto interno tra virgolette perché, oltre a volerlo intendere come significato letterale di una storia che si svolge quasi interamente in un interno, volevo sottolinearne la dimensione interiore dei suoi personaggi. Un film cioè tutto recitato.

Il cacciatore di taglie, la condannata a morte, il boia, il maggiore nordista, il generale sudista, il contadino, il cocchiere e il messicano. ma con nessuno che la conta giusta sulla propria identità. Tutti personaggi variegati e selezionati per imbastire una trama esplosiva.
Come al solito Samuel L. Jackson è l'elemento irrinunciabile dei suoi film. E' suo il primo primo-piano del film ed e sempre lui la chiave di volta di tutta la storia. Quando poi Tim Roth, dice al quasi omonimo John Ruth (Kurt Russel) "sei proprio una vera iena" noi fan di Carpenter abbiamo già colto la citazione. La battuta più bella resta però quella sul cartello per i "cani e messicani", nonchè il punto cruciale di tutta la storia. 

Sei capitoli (strano che non siano otto) per un film che parte volutamente "lento come la melassa" (per usare il termine di uno dei personaggi). Ci mette un po' a carburare, o quantomeno e a divenire lo spettacolo di fuochi d'artificio finale. Si prende dunque tutto il suo tempo per farci conoscere i suoi personaggi. Adesso dovete scusarmi se dico ereticamente che forse queste tre ore si sarebbero potute sfoltire in qualche modo. Non dico di tanto, giusto un lavoro di cesello sulle doppie punte. Dall'altro lato però sono cosciente del fatto che Tarantino va preso così, e che questo film va sorseggiato come quel caldo caffè lungo della storia. Perciò, per chi tra voi abbia la tentazione di giudicarlo male dalla sua prima parte dico: "abbiate pazienza miscredenti". La seconda parte infatti è un susseguirsi di eventi, battute ad effetto, colpi si scena... un classico di Tarantino insomma.

Non c'è bisogno che vi dica che anche questo film diventerà un classico, magari anche premiato all'oscar. Noi speriamo ad esempio che Morricone possa alzare l'Oscar che avrebbe meritato più volte e che gli è stato dato solo come "contentino" alla carriera.

voto 8+

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