martedì 8 marzo 2022

Marillion - An Hour Before It's Dark


Sono passati ben 6 anni dal 2016 e quante cose sono accadute. 6 anni nei quali i Marillion non si sono fatti sentire, nonostante di solito si tratti di una band piuttosto prolifica in fatto di uscite. Certo, delle cose le hanno pubblicate, alcune anche pregevoli (il bel live With Friends From The Orchestra) ma gli album di inediti si fermavano a quel bellissimo F.E.A.R. che ce li ripresentò in forma smagliante e perfettamente calati nella nostra epoca (laddove molte band prog preferiscono invece suonare e risuonare  la stessa canzone dagli anni '70).
An Hour Before It's Dark, uscita in questi giorni, sembra riprendere il discorso lasciato in sospeso col lavoro precedente, sia in quanto a tematiche che a livello più specificamente strutturale dell'album. Si potrebbe quasi parlare di una "parte 2". Se li i Marillion affrontavano argomenti come l'immigrazione, il denaro, il potere, la violenza (alcuni ancora più attuali dopo i recenti fatti di guerra), rendendo F.E.A.R. un album molto "politico", in questo caso la band si sposta su tematiche più umanistiche: l'ambiente, il rapporto con la Terra e con la pandemia, il convivere con la malattia e la morte. 

Anche a livello strutturale, come detto, ci sono somiglianze col lavoro precedente. Rothery e soci adottano anche qui la formula del "semi-concept", con 4 suites divise in più parti a prendersi la scena principale, e un altro paio di brani a se stanti.
Il primo dei quattro pilastri sui quali si poggia l'album è costituito da Be Hard on Yourself che già dai primi secondi ci mostra ancora una volta i Marillion come maestri di atmosfera, abili creatori della tensione. Non servono assoli al fulmicotone o funambolismi. Il suono è omogeneo, gli strumenti si intrecciano tra loro senza soluzione di continuità, con un Rothery certosino in un lavoro di cesello e un Ian Mostley molto più in primo piano rispetto al recente passato (voto 8,5).

Reprogram The Gene è la più breve delle 4 suites e scuote l'album con il suo approccio rock e un andamento più spigoloso. La voce di Hogarth si fa più dura, ma solo fino ad un certo punto, poi il brano muta verso lidi più melodici che danno modo a Steve Rothery di mettersi in mostra con uno dei suoi classici assoli all'elettrica che arrivano dritti al cuore. Un brano di buon valore anche se non tra i migliori in assoluto dell'album (voto 7,5).

Dopo un brevissimo internezzo strumentale (Only a Kiss) si giunge così alla prima canzone non divisa in più parti, quella Murder Machines già circolata in giro prima dell'uscita dell'album, accompagnata da un eloquente videoclip promozionale. Il testo esplicita alla perfezione l'argomento trattato (la pandemia), ad esempio nel ritornello crudo e angosciante: "I put my arms around her And I killed her with love". Pure le sonorità del pezzo (comunque il più immediatamente assimilabile dell'album) si fanno più spigolose, elettroniche, poco rassicuranti (voto 8).

Di tutt'altro tenore la seguente The Crow And The Nightingale, anch'essa non divisa in più parti e ispirata da Leonard Cohen. Atmosfere notturne, jazzate, ci avvolgono, cullandoci assieme alla voce di Hogarth qui particolarmente ispirato, anche a livello di testi (molto poetiche le liriche). Anche Steve Rothery ci delizia con un assolo dei suoi che conduce il brano ad un finale più sostenuto. Ottima (voto 9).




La terza suite, Sierra Leone, conserva le atmosfere rilassate del pezzo precedente, almeno inizialmente. Si tratta di uno dei classici brani marillioniani che ci fanno viaggiare in posti lontani, raccontandoci storie: quella sorta di prog "cinematrografico" che ci ha regalato già perle come Gaza, Montreal, la stessa The Leavers dell'album precedente. Sembra quasi di essere lì, tra le sabbie africane ad osservare questo minatore che ,imbattendosi in un grosso diamante, comincia a sognare un futuro migliore ma è tormentato dal suo senso morale. Un pezzo molto evocativo e quasi minimalista nel suo approccio al prog (voto 9+)

L'album si chiude con la più lunga di tutte le composizioni, Care, che già dal titolo, ancora più che per Murder Machines, ci fa capire l'argomento del quale tratta. L'impatto della pandemia da modo ad Hogarth e soci di regalarci una riflessione sulla paura, sulla morte ma anche sulla speranza (il bellissimo finale nel quale si omaggiano tutti coloro che hanno contribuito col loro lavori a salvare delle vite umane: "The angels in this world are not in the walls of churches, The heroes in this world, working while we’re all sleeping"). Bellissimo poi l'assolo sul finale di Rothery. (Voto 9+)




An Our Before It's Dark non è il miglior album in assoluto dei Marillion, è soltanto l'ennesima dimostrazione della maturità di un gruppo che in più di 40 anni di carriera ha attraversato numerose sfumature del prog e ha trovato alla fine la sua strada. Una delle voci più autorevoli e importanti del movimento, che non smette di emozionare, far riflettere, e deliziare con melodie e sonoritá mai troppo complesse o virtuosistiche ma sempre efficaci, evocative, dal grande respiro poetico. Cosa chiedere di più a questo ormai over sessantenni?

Voto 8

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