mercoledì 24 maggio 2017

Galahad - Quiet Storms (2017)

I Galahad sono un gruppo strano. Appartenenti al neo prog, non hanno fatto parte però della "prima ondata", quella più famosa e che vide la fortuna di gruppi come Marillion, Iq, Pallas e Pendragon. Arrivati più tardi, come gli Arena, non avevano però come loro la forza di musicisti navigati e provenienti da esperienze di successo. Il nome del gruppo non era il massimo dell'originalità e i primi album risultavano derivativi e pieni di scimmiottamenti ai Marillion. Pure il cantante Stuart Nicholson era tutto meno che appariscente e la produzione dei primi album era particolarmente pessima. Una ciofeca di gruppo insomma? No.
All'improvviso, dopo che se ne persero le tracce per qualche anno, circa 10 anni fa se ne uscirono con "Empire's Never Last", un album neo prog ma tendente al prog metal, con una produzione di buon livello, tante parti musicali di grande effetto e un Nicholson che si scoprì avere grandi doti vocali (inaspettate fino a quel momento). Un fulmine a ciel sereno, se non fossse che negli album successivi Battle Scars e Beyond The Realms Of Euphoria (usciti a distanza di meno di uno anno l'uno dall'altro) riuscirono a confermarsi e in parte migliorarsi. Negli ultimi anni il gruppo, forse consapevole dei limiti delle prime produzioni, ha cominciato a sfornare rifacimenti "moderni" e "aggiornati" di pezzi dei primi album e si è scoperto che in fondo quei pezzi erano belli, o forse non lo erano ma le idee c'erano e in quegli embrioni erano contenute grandi potenzialità. Quest'opera di svecchiamento ha dato lustro ad una serie di canzoni ingiustamente sottovalutate e ha regalato al gruppo una nuova credibilità.

Dopo qualche anno di pausa se ne escono in queste settimane con Quiet Storms, un album di ined...no, non proprio. In realtà, come per gli album precedenti (ma qui in maniera più massiccia) si susseguono brani inediti ed altri che invece sono rifacimenti di quelli contenuti su album precedenti. Stavolta però si tratta di rifacimenti "acustici". Scelta davvero singolare (come molte altre fatte dal gruppo negli anni, tipo sfornare un album quasi solo strumentale e jazzato, Year Zero, o lasciarsi infatuare ad un certo punto dalla musica elettronica) ed è inutile dire che rispetto alla controparte sfigurano un po' pur risultando piacevoli (ricordando un po' operazioni come "Less is more" dei Marillion). 
 
In generale come sono i pezzi? Sono di buon livello, come detto quasi tutti prevalentemente acustici ma con qualche variazione, tipo "Melt" (in origine contenuta su "Not all there"): ballata con accenni di batteria e spuzzi elettronici, oppure "Iceberg" che si avvale di un finale orchestrale ed epico. "This Life Could Be My Last" funziona in questa veste che elimina i riff e le sfuriate rock e si trasforma in una vallata malinconica.
"Willow way" (un inedito) presenta invece accenni pastorali che danno al pezzo un atmosfera quasi folk. "Marz (and beyond)" (semi-cover di un pezzo di John Grant) pur presentando un riff insistente di pianoforte è forse il pezzo più assimilabile alle sonorità del gruppo: siamo sempre ben lontani dal prog storico ma il crescendo condotto dalle tastiere porta il brano su sentieri che hanno delle assonanze col neo prog. Anche la lunga "Shine" (che riprende l'omonima contenuta su Following Ghosts), pur durando più di 9 minuti, è una versione più compatta e scorrevole dell'originale, mentre "Weightless" è un inedito che mostra spunti più oscuri e "tesi", pur mantenendo un riff costante di pianoforte per tuta la sua durata. C'è spazio addirittura per una cover dei Rammstein: "Mein Herz brennt".

Quiet storms è insomma un disco particolare, a suo modo coraggioso, col quale ancora una volta il gruppo sceglie di provare a cambiare strada proprio quando sembrava aver trovato la formula giusta. Un piacevole diversivo, che non aggiunge nulla alla carriera del gruppo ma che regala un pugno di canzoni gradevoli e rilassanti.

Voto 7--

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