Sono passati già tre anni dall'album precedente (il discreto The Unquiet Sky) ed ecco che gli Arena rifanno capolino in questi giorni con un nuovo lavoro: Double Vision. Il titolo potrà sembrare già sentito ed in effetti lo è: è lo stesso di un brano pubblicato giusto 20 anni fa all'interno di The Visitor (ma a livello sonoro non ci sono somiglianze così marcate col brano in questione), album che in un certo sensò portò il gruppo verso lidi più "duri" e più commerciali rispetto a quelli degli esordi. Se infatti il gruppo di Mike Pointer, Clive Nolan e soci era nato come "risposta ai Marillion" in un periodo nel quale, orfani di Fish, questi ultimi cercavano un approccio più da "classifica" è altrettanto vero però che gli stessi Arena col passare del tempo appiattivano il loro sound infarcendolo di riff di facile presa e trasformando il loro new prog in un prog metal melodico tutt'altro che originale (laddove invece i Marilllion, al contrario, si riappropriavano di sonorità più cangianti e sfornavano lavori sempre più convincenti). E' proprio a quel The Visitor del 1998 che questo nuovo album vorrebbe ispirarsi (purtroppo non certo nella discutibile copertina) riuscendoci solo in parte, ma regalando comunque ottimi momenti.
L'intento è in effetti proprio quello di offrire un qualcosa che suoni simile agli ultimi album ma che in un certo senso suoni anche affine ai primi lavori della band. Questa "doppia visione" è evidente soprattutto nella differenza tra "struttura" del disco e sonorità effettive. Se infatti la prima abbandona i tanti brani di breve durata, abbracciando invece pezzi più lunghi ( solo 7) e addirittura una suite di ben 23 minuti di durata (la più lunga della carriera), dall'altra nel sound non si sente un cambiamento particolarmente incisivo, anzi a tratti le sonorità si fanno persino più pesanti e meno ariose rispetto a quelle dell'album precendente.
La partenza con "Zhivago Wolf" è abbastanza emblematica: inizio con riffone stile prog metal e voce, sviluppo più "classico", con un ritornello "facile" ma indovinato, che nel finale si fa più veloce e incalzante. Pezzo orecchiabile e in pieno stile Arena insomma con qualche sfuriata metal qua e là. Lo stesso inizialmente si potrebbe dire con il secondo pezzo,"The Mirror Lies", che sembra avere una struttura simile ma presente una maggiore varietà: il riffaccione è spezzato da parti acustiche e più delicate e anche il ritornello è orecchiabile ma più articolato.
"Scars" parte con un intro acustica con chitarra e voce in evidenza per poi rivelarsi una semiballad sferzata comunque nella seconda parte da sonorità più potenti, resta comunque tra i pezzi più canonici dell'album, per quanto piacevole. Di durata simile è la seguente "Paradise of Thieves" ma in questo caso si torna a sonorità più prettamente prog metal che però sembrano sviluppate meglio, così come il crescendo che conduce al ritornello (ancora una volta poco originale ma ben costruito) quasi "pendragoniano" (con un Nolan meno in primo piano) anche grazie ad una chitarra che non si limita ad offire riff ma regala qualche breve assolo molto piacevole.
"Red Eyes" è tra i pezzi più lunghi dell'album e ancora una volta è aperta da un riffone chitarristico stavolta quasi hard rock ma le strofe risultano più ariose e in linea con un pezzo new prog. Nella seconda parte si fanno più presenti le tastiere ma l'andamento del pezzo rimane pressochè invariato. Con un ritornello migliore forse sarebbe stato uno dei pezzi migliori del disco. L'esatto opposto di "Poisoned", unica vera ballata e unico brano "acustico" dell'album: piacevolissima, orecchiabile, con un ritornello di facile presa.
E si arriva così alla famigerata suite da quasi 23 minuti: "The Legend of Elijah Shade". I primi minuti sono quanto di più Marillioniano (quelli di Fish) possa esserci (ascoltate ad esempio la parte che comincia al quarto minuto): piano, cantato teatrale, chitarre acustiche, saliscendi umorale. Sembra insomma di essere tornati indietro nel tempo anche per il gruppo con sonorità che fanno tanto "Songs form the lion's cage". Al sesto minuto la suite si indurisce ma mantiene sonorità new prog assimilabili a quel citato "The Visitor", per poi dal minuto 14 tornare a spostarsi sui solidi lidi rocciosi e assimilabili a quelli degli altri brani (non prima di una breve digressione di Nolan all'organo). Gli ultimi minuti ci riportano invece a sonorità classiche e lontane nel tempo, con la chiusura epica che rimanda a quelle di Sirens (1996) e Solomon (1995), ma di durata inferiore. Un pezzo a tratti davvero evocativo e ben ideato, forse però poteva durare qualche minuto meno.
Double Vision è insomma come detto un prodotto ambivalente: da un lato si sforza di riproporre una struttura e alcune caratteristiche abbandonate nel corso degli anni dal gruppo, dall'altra parte però questo si scontra con sonorità troppo simili agli ultimi (non eccezionali se paragonati ai primi) album, anzi a tratti enfatizzando ancora di più l'adagiarsi sul riff facilotto che appiattisce i pezzi.
In definitiva se amate gli Arena ci troverete le consuete sonorità orecchiabili ed epiche, perfino qualche bella sorpresa qua e là, se invece cercate la rinascita sonora del gruppo o il miglior album della loro discografia potreste restare delusi
Voto 7
Voto 7
Nessun commento:
Posta un commento